sabato 5 settembre 2009

Siamo schiavi della falsa insicurezza

Prima di presentare gli spunti di analisi è utile procedere con un chiarimento sulle definizioni delle parole al centro dell'articolo, parole generalmente fonte di incomprensioni: con il termine “paura” qui si intende il sentimento diffuso di insicurezza e di minaccia al proprio benessere fisico-materiale e alla propria identità soggettiva e sociale percepito dagli individui. In tale prospettiva, paura e insicurezza verranno utilizzate come sinonimi.
Con il termine “potere”, al contrario, ci si riferisce a due differenti, e fra loro connesse, dinamiche di dominio: sia in senso focaultiano, come circolazione di pratiche discorsive che impongono una visione del mondo e uno specifico “sentire la realtà”; sia in senso istituzionale, come potere organizzato all'interno di istituzioni formali e legittimate alla gestione del controllo sociale. I due concetti, sebbene qui presentati come due momenti distinti, nella realtà interagiscono e si contaminano in un unico processo di gestione del dominio che concorre a formare, mantenere e riformulare l'ordine economico, sociale e simbolico delle relazioni umane all'interno dei sistemi sociali.

Il tema diritti e paura chiama in causa necessariamente il potere e le sue forme organizzative: Michael Moore, al termine del film Fahrenheit 9/11, come postilla di chiusura riprende la nota riflessione di George Orwell esposta in “1984” per mostrare come le politiche che diffondono insicurezza e paura siano uno strumento nelle mani del potere organizzato per legittimarsi e legittimare la propria azione, ridurre le garanzie giuridiche formali e spostare l'attenzione dell'opinione pubblica da temi più pressanti e scomodi. In altre parole, attraverso le politiche della paura e dell'insicurezza le istituzioni di potere hanno la possibilità di rendere legittimo un maggiore controllo sociale (il potere diviene un meta-potere: uno strumento per rafforzare il potere stesso).

L'utilizzo della paura e del desiderio di sicurezza, tuttavia, ha risvolti non solo politici e sociali, ma anche economici: i rapporti annuali del Sipri e il rapporto del 2003 dello United for a Fair Economy mostrano come le campagne elettorali spesso siano finanziate dai produttori di armi e, viceversa, è evidenza quotidiana come nelle dinamiche politiche (propoaganda, dibattiti, talk-show, comizi etc.) per la conquista del potere il tema della sicurezza ricopre un ruolo sempre dominante (nelle elezioni presidenziali del 2002 un fattore di non poco conto nella sconfitta di L. Jospin fu certamente l'intenzione nel suo programma politico di emanare un divieto sul possesso di armi da guerra per la popolazione civile).
Sempre dal Sipri abbiamo visto come l'intervento in conflitti armati, alimentare l'insicurezza nazionale e internazionale, la paura di essere al centro di futuri possibili attentati o di una minaccia costante nella vita di ogni giorno, siano strategie che aumentano le spese militari degli stati e, di conseguenza, gli utili delle industrie produttrici che tanta parte hanno nel bilancio economico di uno stato (nell'ultimo rapporto del Sipri la spesa mondiale delle armi è aumentata del 3,5% tra il 2005 e il 2006).

L'esposizione di questi dati portano a una considerazione necessaria: non si valuta l'opportunità delle spese militari, ma la radicalizzazione del senso di insicurezza attraverso la politica e l'economia che, definendo un mondo sotto lo scacco costante di una minaccia e di una guerra, porta a un mondo iper-militarizzato e controllato, come se in guerra vi fosse realmente.
La minaccia di un attentato terroristico è di per sé una realtà probabile, in potenza: sebbene misure di sicurezza preventiva possano essere necessarie, la salute di una società e dei diritti civili si misura, paradossalmente, anche dalla possibilità che attentati terroristici possano accadere. L'affermazione non rientra nei significati delle pratiche discorsive dominanti e per non essere al centro di facili obiezioni ha, dunque, bisogno di precisazioni: solo una società autoritaria e controllata in ogni suo ganglio può prevenire qualsiasi attentato terroristico, ossia una società che riduce le garanzie civili e politiche per allargare la rete del controllo. Un sistema nazionale che favorisce la partecipazione e le libertà civili e politiche si espone necessariamente al rischio della violenza: il successo consiste nell'intervenire sulle cause della violenza, non nel controllare le sue possibilità di espressione.

Un obiezione della tesi fin qui proposta potrebbe consistere nell'affermare che l'insistenza sui temi dell'insicurezza e della paura da parte delle istituzioni politiche ed economiche sia in realtà l'espressione del sentimento reale percepito dalla popolazione, per la quale la paura dell'altro gioca un ruolo fondamentale nella costruzione psicologica dell'identità. La politica, insomma, come cassa di risonanza dell'opinione pubblica e delle esigenze psicologiche. Cercare di capire quali direzioni esistano fra i due poli è impresa ardua ed è forse anche un'operazione non così decisiva: l'influenza tra sentimento percepito e politica non è unilaterale, ma al centro di un continuo scambio. I discorsi politici alla televisione e le notizie dei telegiornali entrano nei discorsi quotidiani, rafforzano una visione della realtà che a sua volta forma un serbatoio di immagini al quale le forze politiche traggono informazioni e ispirazioni. Il potere, inteso focaultianemente come sapere, circola nelle pratiche quotidiane, nei media, nelle istituzioni e impone una visione del mondo nel quale la paura ha un posto centrale, rispondendo a bisogni psicologici e a interessi economici e politici. Quanto è necessario, allora, è rafforzare una resistenza ai discorsi dominanti e seppure una responsabilità etica alla resistenza spetterebbe maggiormente alla politica, tuttavia, vi sono le influenze dei meccanismi strutturali di funzionamento del campo politico (per usare una definizione di Bourdieu) derivanti dalle forze economiche che impongono vincoli e marginalizzano quella stessa responsabilità in termini individuali (il finanziamento delle campagne elettorali, le necessità del bilancio etc.).

Un terzo attore nella costruzione delle politiche della paura che ha al suo interno un ruolo fondamentale e che si integra con le esigenze politiche, economiche e psicologiche (ossia gli interessi dei tre campi prima esaminati) è l'industria dei mass media: spinti dalla conquista dell'auditel per sopravvivere economicamente e dalla velocità dei tempi comunicativi a ricercare notizie e informazioni spettacolari e superficiali, giornali e telegiornali sono sempre pronti a diffondere un senso di minaccia e insicurezza (si vedano gli studi di Altheide o di Bourdieu).
Gli esempi sono diversi: i fatti di cronaca occupano sempre più spazio e sempre più sono messi in relazione ad una condizione di minore sicurezza legata a pregiudizi e cliché. Appena successa la tragedia di Campignano, ad esempio, dove una madre incinta è stata uccisa all'interno della sua casa, immediati i sospetti dei giornali sui probabili assassini extracomunitari e le immancabili interviste della gente locale a lamentarsi di “come ormai non si è più al sicuro da nessuna parte, nemmeno qui che fino a qualche tempo fa era un paese tranquillo”.
O ancora, gli appelli continui alle minacce del terrorismo o le immagini di violenza della guerra: proprio oggi, 19 giugno, sull'edizione online del corriere.it compare un articolo su un video diffuso da cellule estremistiche in Afghanistan contente l'addestramento di futuri terroristi. E il commento dice: ”Gli esperti non sottovalutano la minaccia, ma al tempo stesso ritengono che si tratti comunque di una iniziativa mediatica e propagandistica”.
Tre sono gli elementi interessanti di questa frase: innanzitutto a parlare sono gli esperti i quali, in possesso di un sapere quasi esoterico che definisce il loro status, sono al di là di qualsiasi critica o confronto. Secondariamente, si parla di minaccia e si dice che gli esperti sono in allerta: la reiterazione periodica di questi rischi controllati ma minacciosi crea un'assuefazione vigile, un meccanismo di tensione costante ma controllato che favorisce e legittima le strutture istituite per il controllo stesso.
Terzo, il video è definito come una strategia di propaganda mediatica: ciò significa che le politiche mediatiche della paura non sono un'esclusiva del mondo occidentale. Cremonesi, giornalista del Corriere, si è spinto al punto di parlare di una nuova epoca della televisione e dei media che dal dolore, fattore chiave di spettacolarizzazione dell'ultimo ventennio del secolo (Boltanski), sono passati alla paura. E quest'ultimo punto, la mondializzazione mediatica della paura è piuttosto interessante per continuare l'analisi introducendola in un quadro comparativo.

La diffusione di politiche dell'insicurezza, di uno stato di guerra a bassa intensità ma permanente come strumento per organizzare il consenso, marcare l'identità e mantenere il controllo (ossia uno strumento di potere, così come indicato da Orwell) è la strategia adottata anche dai “nemici” definiti dal mondo occidentale. Nord Corea, fondamentalisti islamici, Cecenia, gruppi criminali in Messico si servono sempre più di politiche della paura: sia attive (ossia diffondere insicurezza negli stati ritenuti nemici) sia passive (alimentare un senso di insicurezza all'interno della loro popolazione per legittimare la loro azione e forma organizzativa). E tali politiche si servono sempre più dei mass media come mezzo di espressione per accedere a quel grado di realtà che nella nostra contemporaneità solo i mezzi di comunicazione riescono ad assicurare. Accedere a questo grado di realtà significa costruire un'immagine del reale che esclude altre costruzioni alternative, significa possedere quel peso specifico necessario per influenzare i processi economici e politici sui diversi piani locali e internazionali, significa essere riconosciuti come attori con i quali entrare in relazione di cooperazione o di conflitto.
Nel 1993 Huntigton ha introdotto il noto concetto di “scontro di civiltà”: al di là delle critiche che l'antropologia culturale ha portato all'idea sottostante il lavoro del politologo e storico americano di una cultura come “pacchetto” ancorato ad un territorio nazionale (Clifford, Geertz, Hannertz) e quindi pura, statica e impermeabile – le uguaglianze nelle strategie politiche e comunicative fondate sulla paura al fine di organizzare il consenso radicalizzando il conflitto mostrano un'analogia, una similitudine che avvicina i due mondi piuttosto che allontanarli. La qual cosa dovrebbe farci riflettere.

Si obietterà che i contenuti normativi e di valore sottostanti alle strategie sono differenti, ma il punto in questione dell'articolo non è scoprire per quali valori è sventolata la bandiera della paura, ma analizzare la paura come linguaggio politico e mediatico e i suoi effetti sul potere e sulle forme di organizzazione sociale.
Sappiamo che un linguaggio è un modo di definire, classificare e ordinare la realtà, è una visione percettiva che orienta e costruisce una realtà sociale (Bourdieu). Se un linguaggio istituisce un modo di guardare al mondo, allora le realtà costruite attraverso i linguaggi politici e mediatici della paura nel mondo occidentale e nel mondo arabo hanno necessariamente delle analogie che devono essere comprese per affrontare con maggiore consapevolezza le influenze strutturali che determinano il nostro modo di rappresentare e rapportarci agli altri.
Vediamo alcune similitudini: in entrambi i casi, l'altro, il soggetto debole direbbe Dollard, che sia l'arabo, lo slavo o l'occidentale, è sempre il capro espiatorio dei mali che affliggono il mondo e quindi la vera fonte della paura (in ogni fatto di cronaca nera in Italia, per esempio, il primo sospetto è un extracomunitario; mentre sull'altro versante l'imperialismo occidentale è la fonte di ogni male); in entrambi i casi l'altro è sempre oggetto di una generalizzazione (quando si parla di terroristi si parla di arabi, i presunti criminali sono rumeni, mentre il criminale italiano è identificato in maniera individuale “il signor Tal dei Tali”; allo stesso modo l'occidentale è l'infedele, l'imperialista etc.).

Le strategie politiche e mediatiche della paura giocano sulla generalizzazione che sfuma le differenze individuali per definire gli altri come accomunati da alcuni tratti specifci e imprescindibili. Attraverso gli studi della psicologia sociale (ad esempio Turner e i coniugi Sherif) sappiamo che la categorizzazione è un processo cognitivo fondamentale per la costruzione dell'identità che indica un “Noi” sempre in contrapposizione con un “Loro”. E il processo, come indicava Deridda, è sempre in negativo (l'arabo manca di qualità del noi come la pietà, la dignità, lo sviluppo intellettuale e morale; mentre l'occidentale manca della fede, dei valori musulmani, dell'umiltà etc.). Tuttavia, la giustapposizione generalizzante Noi/Loro quando viene radicalizzata dalle strategie della paura e dell'insicurezza producono effetti noti: intolleranza, pregiudizio, forme inconsapevoli di razzismo. In altre parole succede, come indicato dalla definizione della situazione di Thomas o dalla profezia autoavverantesi di Merton, che quanto crediamo e definiamo reale attraverso il linguaggio mediatico e politico della paura ci conduce a comportarci in difesa di una presunta purezza dell'identità e della cultura (anche se poi decidiamo di ballare la danza del ventre al laboratorio di danza sotto casa e passare le vacanze in Mar Rosso o fare acquisti a Dubai).

Allora lo scontro diviene reale, la paura è manipolata e strumentalizzata e le diverse strategie concorrono a creare un ambiente internazionale di conflitto aperto e radicale, instabile e polarizzato in un circolo vizioso che seguita poi ad alimentare le stesse politiche della paura. In un tale clima, infatti, l'opinione pubblica e il consorzio civile invece che chiedere maggiore partecipazione e la soluzione degli squilibri che formano l'habitat per il sorgere delle minacce, si aggrega attorno ad una maggiore chiusura, all'idea di stati più autoritari che limitino le libertà e i diritti civili (piani sull'immigrazione, controllo urbano, violazioni alla privacy, libertà di associazione, negazione del diritto processuale etc.) e forniscano maggiore protezione. E il paradosso è che così facendo le società occidentali, che fanno dei diritti l'emblema della democrazia, si ritorcono su se stesse. In Italia, purtroppo, tutto questo è un film già visto quando l'intenzione degli attentati di Prima Linea a Milano dei magistrati Galli e Alessandrini avevano come scopo prioritario quello di radicalizzare e militarizzare il conflitto, mostrare il volto autoritario della democrazia.
La radicalizzazione delle identità e la riduzione dei diritti sono, dunque, espressione e alimento delle strategie politiche e mediatiche della paura, favorite dalla situazione internazionale e dai processi economici e psicologici prima indicati, che avvicinano piuttosto che allontanare i diversi sistemi sociali nel mondo nella gestione del potere e delle organizzazioni sociali.

Esiste, inoltre, un'ulteriore considerazione legata alla richiesta di maggiore chiusura e autoritarsmo: quanto maggiore è la sicurezza raggiunta, tanto più è la percezione dell'insicurezza. Il paradosso è evidente: non esistono sistemi d'allarme o sofisticazione di armi e controllo che ci possano mettere al sicuro per sempre, eppure più è l'affanno a creare nuovi sistemi di sicurezza maggiore è la percezione dello spazio marginale lasciato all'insicurezza. Il meccanismo potrebbe essere spiegato a partire dalla teoria della deprivazione relativa: maggiore è l'aspettativa e più è percepita la mancanza. In questo senso, le strategie della paura non fanno che alimentare il paradosso: un esempio potrebbe essere il caso del Nord Corea il quale vive da più di trent'anni nella costante paura, alimentata ad arte dai circoli del potere istituzionale, di essere il prossimo target dell'ingerenza statunitense. Gli effetti di questa politica sono stati: isolamento, controllo sociale diffuso (a dimostrazione che il potere non sta semplicemente nelle istituzioni), garanzie civili e giuridiche annullate e povertà estrema. E il paradosso è ancora più estremo perché secondo molti studiosi americani ad oggi nessuno stato, in quanto a sistemi di difesa, è più al sicuro e protetto da un attacco Usa come la Corea. Eppure la paura non cessa di esistere nel paese dell'Estremo Oriente.
Seppure non come il caso così tragico della Corea, un tale meccanismo è vissuto anche dalle società occidentali: l'informazione, la politica, i discorsi di ogni giorno alimentano l'impressione di essere preda di extracomunitari o di attentatori arabi e richiedono nuove telecamere, misure straordinarie, agenti di sicurezza sui treni e sui bus, squadre di quartiere perché siamo sempre meno al sicuro.
Così, seppure la sicurezza è un presupposto della libertà, se quest'ultima si trasforma solo e soltanto in libertà dalla paura, diventiamo schiavi dell'insicurezza.

In conclusione, possiamo vivere come il giovane tenente Drogo in attesa dei Tartari che non arriveranno e scoprire poi un giorno che il pericolo, come nella favola nera di Ballard, è all'interno dei nostri super condomini protetti: alla fin fine a uccidere quella giovane donna di Compignano non è stato un extracomunitario. Oppure guardare in faccia i vincoli strutturali del campo economico (i bilanci, le industrie di armi), del campo politico (le campagne elettorali, i fondi al partito), del campo mediatico (la ricerca dell'auditel e la spettacolarizzazione) e le esigenze psicologiche che concorrono alla costruzione delle strategie politiche e mediatiche dell'insicurezza e del suo circolo vizioso per divenirne consapevoli e limitarne quegli effetti che ci rendono più simili a quei “nemici” di cui tanto abbiamo paura.

Il pre-giudizio è difficile da spezzare

"E' più facile spezzare un atomo che un pregiudizio" (A. Einstein)


Una frase che sembra calzare a pennello a questo momento storico, o forse, a tutti i momenti che compongono la storia. Penso a come sia facile per chi ci governa esclamare in virata veloce il ritorno al nucleare, contro il voto del suo stesso popolo, piuttosto che capire, cercare di comprendere le possibili modalità di uno sviluppo differente.

Il pregiudizio che voglio spezzare oggi è: "Tanto non cambia niente".

Molte persone, di molte estrazioni sociali, acculturate o meno, basse, alte, magre, grasse, giovani o vecchie, pensano che nel mondo, per davvero, non ci sia verso di fare niente. Vedono il mondo e il sistema in cui l'uomo l'ha rinchiuso, come una scatola di vetro, da ossevare e forse comprendere. Una scatola impermeabile, chiusa, con la quale non si può davvero interagire.

Quei pochi che osservano la scatola con curiosità si accorgono, invece, di quanto tutto sia in precipitosa evoluzione, nei modi, nei costumi, nei tempi, nelle esigenze, nella geografia, nella vita. La vita è stata talmente stravolta in un solo secolo che è davvero stupido continuare a dire che non cambia nulla. Poichè tutto è cambiato.

L'azione umana, di gruppi di uomini, ha modellato la terra, l'ha resa differente, ha creato differenti tipi di rapporti sociali, ha fatto esplodere città, ha sfidato le impervie vette della medicina e del ridicolo. In pochi millenni l'uomo è stato capace di molteplici rivoluzioni totalizzanti.
Tuttavia aleggia sempre nell'uomo un'ombra che gli dice che la sua azione è inutile, se non negativa, che deve semplicemente accettare, passivamente, quanto gli è dato.
Come un martire nell'arena, con la colpevolezza, se appartenente a questa chiazza di mondo, di sfruttare a proprio favore un sistema che martiri rende altre persone in altre parti del mondo.

Oggi vi dico che qualcosa si può fare.
Guardatevi. Tutta la vostra, la nostra, vita è schiava del denaro, una delle tante meravigliose idee dell'uomo. Giochiamo quotidianamente un pericoloso calcolo finanziario sulle nostre stesse vite: siamo monete viaggianti.
Questo è disdicevole, sconfortante, ma appena ci se ne renda conto è quanto meno logico cercare di trarre vantaggio da una posizione amorfa.

L'uomo è un cliente, un compratore e come tale indispensabile al sistema.
L'uomo-cliente è l'alunno che legittima il maestro.
L'uomo cliente che va dietro alla pubblicità legittima i marchi e dietro di essi molto altro.
L'uomo cliente può con un solo coerente gesto rovesciare il sistema.

Vi chiedo questo gesto minimo, ma molto influente, andate a comprare qualcosa di equo e solidale, godetevelo, assieme a tutta la famiglia, lasciate che entri un'aria diversa in casa vostra. Non fatevi condizionare dalle marche dei soliti prodotti che ormai a furia di venderli snudano le persone.

La Paura dell'Altro

Prima erano "terroni".
Poi fu la volta dei "negri" o "vucumprà", che tuttosommato qualche simpatia la riscuotevano da qualcuno.
Poi venne il turno degli "albanesi" e sembra che tale fase stia lentamente passando
Oggi è il giorno radioso che teme i "Rumeni".


I fatti che i telegiornali non si stancano di elencare, morti qui, donne stuprate là, etc. colpiscono. In primo luogo per il semplice fatto che ad ogni singolo evento di cronaca che veda come protagonista "il rumeno", è data la primissima pagina.

"Il rumeno", a ben guardare, non ha una provenienza se non "casa sua", è famoso per essere criminale dall'infanzia ("che vuoi, loro crescono così"), non è adatto al lavoro (ed in questo assomiglia molto all'albanese) e non è incline alla civiltà. Sì, insomma, al "Rumeno" gli va proprio detto: "A casa mia devi fare come dico io".

Questa la coscienza comune e diffusa, che per scrupolo di precisione definisco con una sola parola: RAZZISTA.

Sì, ho sentito alcuni di voi chiedere: e allora dimmi come e cosa ne pensi tu! e rispondo subito.
Inizio da lontano, ma sarò breve, come dicono di solito i politici:

- L'Italia è un paese di frontiera, visto non solo come miraggio dalle popolazioni meno abbienti per il suo fascino da capitalismo moderno: alcuni lo vedono come lingua di terra di passaggio per raggiungere paradisi migliori quali Francia o Germania. Per questo, come dite voi, "tutti vengono qui".

- Se le popolazioni meno abbienti fanno di tutto, compreso indebitarsi nel profondo del loro corpo, pur di arrivare a camminare su questa immonda striscia di terra, questo dovrebbe farvi riflettere e capire che sicuramente Voi siete sempre stati meglio di loro, anche in zona re(tro)cessione, che avete un tenore di vita migliore perchè li avete sempre sfruttati nelle vostre fabbriche come manovalanza a basso costo (dicesi "capitalismo"), e che ad oggi sono in molti a reclamare di poter mangiare ogni giorno e magari avere un tetto.

- Le statistiche della delinquenza (è aumentata in Italia, questo è vero), dovrebbero farvi riflettere altrettanto. In qualsiasi caso di delinquenza voi guardiate (stupro, rapina, scippo o altro), a primeggiare siete sempre voi, e di gran lunga. Gli italiani dovrebbero sicuramente iniziare a guardarsi da loro stessi, prima di paventare la paura del diverso.

- I giornali marciano sopra i temi caldi che la gente sente personali, e i politici fanno uguale. Questo significa che i giornali, di rimando, aumentano la paura e le angoscie delle persone, assoggettandole a richieste improbabili di sicurezza totale; i politici poi rispondono.

- Piccola previsione: se è vero che il governo precedente nulla ha fatto in materia di sicurezza, è vero che questo farà anche troppo. Innanzitutto la legge Bossi-Fini è razzista e studiata male e Fini stesso ne è consapevole e vuole cambiarla. Questo teorema ha due corollari: il primo è che si inaspriranno i controlli verso tutti, voi compresi, e che si diffonderanno telecamere ed intercettazioni ad ampio raggio salvo ora che i giudici cominciano a scovare le malefatte degli stessi politici; in secondo luogo, l'Italia sarà forse l'unico paese a non garantire l'accoglienza primaria e asilo politico (come già fa Malta, pare con la stima di Frattini), e non solo... sparando a caso nel calderone, quante vittime innocenti perpetreremo?

Bene, adesso potete pure riaprire il giornale o guardare il tg1 e convincervi che "il Rumeno" è pericoloso, che non bisogna dargli lavoro perchè è scansafatiche, che fondamentalmente è un testa di c.... di natura, che non volete che i vostri figli giochino con i loro, che se vengono ad abitare nel vostro palazzo dovete andare via che la casa diminuisce il suo valore e cose del genere. Se proprio volete farvi un favore, investitene qualcuno, tanto reclameranno in pochi.
Cari amici di delinquenza ne capite più voi che gli stranieri e i vostri politici (certi politici intendo) ne sono un esempio.
Dopo i rumeni non so a quale razza toccherà questa discriminazione dove tutti si affrettano dopo il giudizio a dire "ma io non sono razzista".

Il Diverso...la diversità è una bella e stupida invenzione

Non esiste la diversità. Piuttosto la inventiamo noi. Quando io dico di qualcuno che è diverso, in realtà ho già deciso che lo perseguiterò. In che cosa un nero è diverso da un bianco? Per il colore della pelle? Ma chi ha deciso che questo particolare è rilevante? Sono identici per molte altre cose. Perché non lo si dice? Perché si punta invece su ciò che pare avere un'oggettiva diversità? Perché questo vi serve per espellere. Pensiamo al caso dei disabili. Sono i diversi, si dice e credo lo si dice anche in buona fede, ma dicendo che sono "diversi" già li si chiude in una dimensione esistenziale terribile. Io sono diverso da ognuno di Voi o no? Le mie abilità sono diverse da ognuno di voi o no? Perché allora di me non si dice che sono "diversamente abile" (come attualmente s'ingengna a dare una classificazione degna di discriminazione) e lo si dice solo per quegli altri? La ragione è che noi abbiamo una partecipazione collettiva a una dimensione che ci accomuna. Per esempio noi siamo guineani (della Guinea Bissau) perché abbiamo un criterio generale che ci rende tutti uguali che è Guinea Bissau, tuttavia tra di noi siamo differenti, ad esempio, per altezza, ma lo siamo solo in quanto ci riconosciamo uguali rispetto al metro, che è l'unione di misura uguale per tutti. Ci misuriamo e scopriamo che siamo differenti, siamo uguali e differenti.
La diversità non è la differenza, bensì la parola che indica il fatto che tu non partecipi alla misurazione collettiva. Il metro non ti misura. Quando noi diciamo di qualcuno che è diverso lo stiamo espellendo dal sistema di commisurazione che produce eguaglianza e differenza e che rende gli uomini, uomini, agli occhi degli altri uomini.
Siamo uguale perchè abbiamo lo stesso diritto d'essere diversi.

Il rapporto tra:Paura, Identità ed il poter politico

In che misura la paura dell'altro può rafforzare l'identità di un popolo?

Che cos'è la paura? È qualche cosa di solamente negativo? No. Per paura io intendo semplicemente l'impressione che noi abbiamo di fronte alla possibilità che si sprofondi nel disordine. Noi viviamo con questa consapevolezza che qualche volta non arriva alla coscienza. Che cosa succederebbe se fuori dalla porta ci fosse la selva, il selvaggio, il niente? Allora, stando ben chiusi in casa, noi immaginiamo che la nostra casa sia ben fortificata, quando, in realtà, non arriveremmo mai a questo niente, perché il niente per definizione non c'è. Tuttavia, ce lo rappresentiamo. La cosa sorprendente di questo meccanismo, che secondo me fonda la nostra civiltà e il nostro essere uomini, è che anche le cose più grandi vengono dalla paura. La grande letteratura viene dalla paura, ma anche semplicemente i comportamenti quotidiani vengono dalla paura. Un gatto non ha paura perché non percepisce la possibilità che il mondo non sia niente. Il gatto è tranquillo, ha degli istinti che lo portano a vivere, mentre l'uomo è costantemente preso dal timore che di là ci sia la morte, la fine, il disordine. Allora: in che senso la paura produce identità? Stando alle cose che ho detto, in un senso molto positivo, perché noi siamo quello che siamo perché sentiamo questa paura positiva. Però può darsi che in un gruppo particolarmente in crisi, che non abbia fiducia in sé, qualcuno pensi che lo strumento migliore per ricostituire il gruppo, magari per manipolarlo, per avere potere sul gruppo, sia di dire che c'è qualcuno che ci vuol male. Ossia, la paura può diventare un mito, può diventare uno strumento di potere e in questo senso essa rinforza le identità perché se tu sei italiano e hai paura che l'extra-comunitario voglia sostituirti a casa tua, tu ti spaventi; dunque aumento la tua consapevolezza dell'essere italiano. Però ti accorgi che sei solamente italiano, non sei te stesso, perché vieni ridotto a una dimensione di identità impoverita, così ogni tuo comportamento non è dettato dalla ricchezza che senti in te, ma solo dalla paura. Quindi, la paura, può influire sull'identità in due modi completamente diversi: in maniera positiva, quando la paura è aperta, si trasforma in cultura, in civiltà in produzione artistica, oppure in modo negativo, terribile, quando, attraverso questo innalzamento artificiale e mitologico della paura si arriva a una struttura sociale e politica che io non esito a definire totalitaria.

Il potere politico serve per dare forma alla paura, perché senza uno Stato saremmo del tutto impauriti. Quando la presenza dello Stato viene a diminuire, accrescono le insicurezze tra la gente. Però la paura, quando viene manipolata e mitizzata, produce un potere perverso che controlla le coscienze, che non mira alla sicurezza degli individui, ma al dominio di chi la produce. Io parlo di una macchina che, mediante gli strumenti di comunicazione di massa, diffonde paura. Essa la si inventa e la si aumenta per poterla gestire a proprio piacimento, come, per esempio, per prendere voti alle elezioni.